Beatificazione di padre Giuseppe Ambrosoli: testimonianza di Isabella e Lorenzo

“Perché siete andati in Uganda?” è la domanda che da qualche tempo ci sentiamo ripetere da qualche giorno, dopo i soliti convenevoli. Sviando con qualche frase di circostanza o appellandoci ai legami di appartenenza territoriale, abbiamo solo rinviato la risposta. Iniziamo da questo quesito perché non sempre le cose si fanno per predeterminazione, noi siamo stati solo guidati da un desiderio che ci ha fatto superare, non senza difficoltà, alcuni limiti che ci si sono posti davanti prima di partire. In effetti, oltre alla stessa comunità pastorale, non avevamo molto altro a “legittimarci” a perseguire il questo desiderio di presenziare in terra d’Africa alla beatificazione di padre Giuseppe Ambrosoli.

Siamo partiti una settimana prima di domenica, atterrando a Entebbe (Kampala) dopo due scali, un driver ci aspetta di prima mattina e accompagniamo al suo albergo una chirurga in pensione di Vicenza conosciuta in aereo e anche lei diretta verso Kalongo, con ricordi di trent’anni prima legati ad alcune lettere e incontri fortuiti con padre Giuseppe. Mentre la città si sta svegliando, l’impatto con i contrasti che la caratterizzano è subito molto forte: le strade asfaltate di matrice cinese che collegano i colli di Kampala fanno da contraltare alle tortuose stradine in terra in cui è impossibile procedere in modo rettilineo, le baracche degli “slum” confinano con grattacieli contemporanei e le ricche ville dietro ad alti cancelli, i poveri si affaccendano per prepararsi alla giornata lavorativa, mentre i più benestanti sulle stesse strade asfaltate fanno jogging.

Nella capitale ci fermiamo solo due giorni, ma abbiamo l’occasione di visitare il memoriale ai martiri d’Uganda e quello che rimane della prigione sotto il palazzo reale. Il primo è emozionante perché è il luogo in cui milioni di persone si ritrovano durante la festa nazionale in cui vengono ricordati 22 martiri ugandesi, principalmente giovani, uccisi o bruciati vivi dal re del Buganda a fine del XIX secolo solo perché avevano abbracciato la Fede cattolica testimoniata dai Padri Bianchi. Il secondo luogo è stato fatto costruire dal dittatore Idi Amin Dada da ingegneri europei come magazzino, sotto il palazzo reale, ma poi convertito in prigione e luogo di tortura attraverso l’uso dell’elettricità per le classi abbienti e per gli intellettuali: migliaia di persone sono passate di qui. Questi due luoghi ci sono entrati particolarmente nel cuore perché ci hanno introdotto alla storia travagliata del paese, alle lotte per il potere, ma soprattutto alle sofferenze delle persone per la libertà e per testimoniare il proprio credo.

Successivamente, ci siamo trasferiti nel nord paese, passando attraverso anche un parco nazionale per vedere alcuni animali selvatici, fermandoci a dormire nella città di Gulu, la seconda per importanza in Uganda. La mattina successiva partiamo con destinazione Kalongo, ben presto la strada asfaltata termina e bisogna rallentare per via delle buche che costantemente si aprono nel terreno battuto. Da qui iniziamo a incontrare pellegrini a piedi, con nostro sgomento scopriamo che mancano ancora due ore in auto. Prima pochi, poi sempre di più, rallentiamo, scambiamo qualche battuta con un prelato che indossa la tonaca, forse per non stropicciarla nello zaino, cediamo le scorte d’acqua che abbiamo e salutiamo le donne che cantano dietro alla grande croce portata con orgoglio. Arriviamo a Kalongo e veniamo accolti cordialmente da tutti, dallo staff dell’ospedale e della gest house, dalla parrocchia e, soprattutto, dalla gente.

Approfittiamo dei giorni che mancano alla festa per conoscere i dintorni e umilmente dare una mano per quel che si può: non è mai strettamente necessario un aiuto esterno per così poco tempo, nemmeno in ospedale, ma il lavorare a fianco a fianco permette di entrare più in intimità e conoscere le persone. Kalongo è un paese relativamente piccolo come abitanti, ma è molto esteso come territorio, tutto però ruota attorno alla missione comboniana, alla chiesa, all’ospedale, alla scuola primaria e alla scuola di ostetricia, i cui edifici sono raggruppati a poco più a nord dell’incrocio viario principale e sono dominati dal caratteristico monte. A sud dell’incrocio c’è un piccolo mercato e negozietti che si sono attrezzati per l’occasione. La maggior parte delle persone vive in case di terra cruda dalla tipica forma circolare con tetto in paglia, sparse tra i campi e il “bush” a gruppetti di tre o quattro. Gli abitanti fanno parte quasi esclusivamente della tribù degli Acholi, hanno strutture gerarchiche e abitudini fortemente consolidate da secoli di chiusura verso l’esterno. Difficile per la nostra mentalità occidentale comprendere e capire certe dinamiche o decisioni, ma una delle abilità e capacità di padre Giuseppe, ci è stato riferito durante il nostro soggiorno, è stata proprio quella di riuscire ad entrare in relazione con le persone del luogo, dando loro valore per quel che erano. L’essere accolti da un grande abbraccio d’amore, senza giudizio, è la modalità nuova che li ha fatti entrare in relazione e aprire verso questa figura carismatica, consentendo negli anni la costruzione di un moderno ospedale, dove prima c’era solo un dispensario. Ancora oggi molte persone lo ricordano con fervore e molti bambini portano il suo nome, alcuni giovani-adulti si sono avvicinati a noi per raccontarci di come li ha salvati o fatti nascere.

Il giorno prima della cerimonia, l’aria era elettrizzante, ovunque si trovava gente intenta a preparare gli ultimi dettagli, pellegrini accampati alla “bene e meglio” in ogni angolo riparato, tutto in un disordine ordinato che però non ha creato alcun disagio importante. La cameretta di padre Giuseppe è stata aperta in quel momento e tra le reliquie personali conservate, ci ha particolarmente colpito un libro di San Giovanni della Croce con sottolineature riprese in diverse momenti sull’umiltà e sul non voler possedere nulla per possedere tutto. In chiesa parrocchiale è stato, invece, allestito un altare con un manichino e un quadro sopra alle ossa del Beato, di questo ci ha colpito la quantità di persone che lo presidiavano in preghiera, ma anche la semplicità dei doni portati come ad esempio oggetti di uso comune.

Nel frattempo in Guest House, ci hanno raggiunti diversi padri comboniani con i quali abbiamo potuto condividere esperienze, sentire racconti e storie sulla vita del Beato. Ne abbiamo tratto un ritratto di un uomo molto autorevole, sempre disponibile per le persone e che non aveva paura di rinunciare a cose per sé stesso, impegnato a mantenere le relazioni locali e con l’Europa per la prosecuzione della missione, oltre a una forte fede contagiosa che traspariva nelle attività di tutti i giorni. Durante la lunga cerimonia di beatificazione, la forza di questa figura nei cuori si è sentita solo parzialmente per via delle “misure di sicurezza” che hanno imposto distanze considerevoli, soprattutto per i fedeli, ma siamo fiduciosi, per quanto abbiamo visto durante il nostro soggiorno, che permanga ancora a lungo e porti frutti.

Al rientro, ci siamo fermati ancora qualche giorno in capitale e abbiamo incontrato degli amici che collaborano ai Meeting Point negli “slums” attorno a Kampala costituiti da rifugiati, in gran parte donne e della tribù Acholi, scappati durante le guerre della travagliata storia ugandese. Anche qui, quello che ha generato una forza di rinnovo in queste donne, che hanno vissuto cose non raccontabili, è stato uno sguardo d’amore senza giudizio, sostenuto dalla fede. Essere di fronte a esperienze molto diverse, ma generate da un'unica fonte e che muovono così tanto i cuori, ha fatto nascere in noi la certezza che il nostro desiderio iniziale di questo viaggio ha generato nuovamente un incontro con Cristo, attraverso la figura di padre Giuseppe e le persone che abbiamo avuto la fortuna di conoscere. In conclusione, quindi, non abbiamo una risposta al perché, nonostante tutto, siamo partiti, ma siamo sicuramente tornati con una certezza in più. 

Isabella e Lorenzo - rappresentanti della Parrocchia di Ronago alla Beatificazione.


Isabella e Lorenzo